autore: Julie Otsuka
editore: Bollati Boringhieri
data di pubblicazione edizione: 2015
lingua originale: inglese
titolo originale: The Buddha in the Attic
traduttore italiano: Silvia Pareschi
numero di pagine: 144
genere: narrativa storica
Sulla nave eravamo quasi tutte vergini. Avevamo i capelli lunghi e neri e piedi piatti e larghi, e non eravamo alte. […] alcune di noi avevano appena quattordici anni ed erano ancora bambine […] alcune di noi sulla nave venivano da Kyoto, avevano la pelle chiara e delicata, ed erano sempre vissute nella penombra delle stanze sul retro […] alcune erano figlie di contadini della prefettura di Yamaguchi, ragazze con i polsi grossi e le spalle larghe che non erano mai andate a letto dopo le nove [...].
Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka è un romanzo breve - solo 144 pagine nella versione cartacea italiana - ma estremamente potente, che si distingue per la sua narrazione corale e per la capacità di dare voce a una storia collettiva spesso dimenticata. Ambientato nei primi decenni del Novecento, il libro racconta l'esperienza delle cosiddette picture brides, giovani donne giapponesi che, tra il 1908 e il 1924, emigrarono nella costa occidentale degli Stati Uniti per sposare uomini giapponesi immigrati in America basandosi solo sulle fotografie che avevano ricevuto. Questo periodo storico è restituito con precisione storica ed emotiva.
Uno degli elementi più distintivi del romanzo è la voce narrante. Otsuka adotta un punto di vista collettivo, usando una prima persona plurale che unisce tutte le donne protagoniste in un’unica entità narrativa. Questa scelta stilistica, rara e potente, immerge il lettore nella dimensione collettiva dell’esperienza migratoria e del sacrificio. Non c’è una protagonista individuale; ogni donna contribuisce a formare un mosaico di speranze, dolori e resistenze. Questo "noi" crea un senso di solidarietà tra le donne, ma anche una distanza che permette di riflettere sull’universalità delle loro esperienze.
Il romanzo si muove attraverso momenti chiave della loro vita: l’attraversamento dell’oceano, il primo incontro con mariti spesso molto diversi dalle fotografie e lettere ricevute, il lavoro estenuante nei campi, la nascita dei figli e, infine, l’onta della deportazione e dell'internamento nei campi di lavoro in seguito all'attacco di Pearl Harbour del 1941 e il conseguente ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Attraverso brevi capitoli ricchi di dettagli visivi ed emotivi, l’autrice riesce a catturare sia l’ampiezza che l’intimità dell'esperienza di queste donne. Otsuka restituisce loro umanità e spessore, andando oltre i semplici numeri cui queste donne sono state ridotte nella narrazione storica dominante.
Lo stile di Otsuka, asciutto e al tempo stesso poetico, rende la lettura un’esperienza profondamente coinvolgente. Le ripetizioni conferiscono al romanzo un ritmo quasi ipnotico, riflettendo la monotonia, la fatica e il dolore che hanno permeato le esperienze di queste persone. L'uso della prima persona plurale, per quanto inizialmente accattivante, con lo scorrere delle pagine diventa a tratti pesante, spesso ridondante. Tuttavia raggiunge il suo scopo: l’identità singola di quelle donne si perde nel mare di una parte di popolazione giapponese che è stata protagonista di questo fenomeno. Si tratta di un “noi” che viene poi contrapposto a un “loro”, innanzitutto utilizzato per indicare gli americani, popolo dalle usanze sconosciute ed estranee a quelle giapponesi, e in secondo luogo usato a indicare i figli stessi di queste donne, giapponesi nati in America, che danno vita ad una fetta di popolazione dalla doppia identità culturale e linguistica. Verso la fine del romanzo, poi, il punto di vista si ribalta, passando a quello degli americani che si relazionano agli immigrati giapponesi.
Per concludere, questo romanzo mi ha colpito da svariati punti di vista, permettendomi di scoprire un pezzo di storia di cui non avevo mai sentito parlare. Nel momento storico che stiamo affrontando oggi è imprescindibile avvicinarsi a letture che ci spingano a comprendere fenomeni come quello migratorio, a dare una voce ai singoli individui che vi sono soggetti e considerare la loro umanità.

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